I miei racconti

CONGRATULAZIONI DOTTORESSA!!!

«Grazie a chi ha reso l’impossibile possibile».

Chi con un sorriso, chi con una parola, chi con un aperitivo improvvisato.  Chi con un consiglio, una serata in disco, un suggerimento. Chi semplicemente con la sua discreta presenza: non troppe domande sui miei studi ma solo il “giusto”, quanto bastava per non farmi andare in paranoia anche in quei pochi momenti di svago che mi sono concessa in questi mesi.

A inizio novembre questo traguardo mi sembrava lontano e irraggiungibile. Presa dagli impegni amministrativi, legata da essi al mio paese, soffocata dal clima famigliare, non vedevo soluzione e già ero pronta a rinunciare all’ultima sessione utile per potermi laureare in tempo e non andare fuori corso.

A metà novembre l’ansia mi aveva sommerso e paralizzata: il limite era stato superato, quel sentimento di piacevole agitazione e adrenalina che ti invita a dare il massimo era diventato tormento, paralisi, ignavia rabbiosa. A casa non trovavo pace e per quanto mi sforzassi di recarmi nelle biblioteche di Verona per concentrarmi sul mio studio il pensiero imperterrito tornava al mio comune, al nuovo impegno che tante energie mi sottraeva, che sentivo pesare su di me con tutta la responsabilità che il ruolo comportava, alle aspettative della gente, a quello che pensavano di me le persone. Quando ormai credevo di aver toccato il fondo il ricordo di un consiglio di Camilla mi ha suggerito la soluzione: «Ele, quando ero in tesi, ho voluto provare a farla da casa mia. Ho lasciato l’appartamento a Trento come te, ma tornare con i miei, dopo tanti anni di autonomia, ha solo complicato la faccenda. Già il periodo di tesi è di per sé un periodo di tensione, poi se di aggiunge una litigata dietro l’altra, allora è fatta! Come te non ero per niente serena e non riuscivo a partire. Ho dovuto fare una scelta: sono tornata a Trento per qualche mese, il necessario per concludere il lavoro e laurearmi in tempo». Camilla aveva così dato voce a un mio sentire: quanto mi stava implicitamente proponendo di fare era ciò che già da tempo percepivo dentro di me, ma fragile e incerta aveva bisogno di una conferma esterna.

A fine novembre mi sono così data da fare per cercare alla svelta una nuova sistemazione a Trento. Devo dire che sono stata fortunata. Ho trovato un buon appartamento già abitato da quattro presenze discrete, che non mi hanno fatto mai troppe domande, non pretendevano la mia compagnia, né le mie chiacchiere dopo cena o in camera. Semplici, forse ripetitivi, un po’ fancazzisti (soprattutto ricordo Federico: una mattina si è alzato alle 11 e il suo «buon giorno» è stato l’accensione della Play), ma proprio ciò di cui avevo bisogno. Ragazzi che vivono alla giornata, studiano, escono, ma soprattutto si concedono spazi per rilassarsi: chi con una doccia da 40 minuti, chi con mega partitone al computer o alla televisione, chi con lo sport, chi continuando a rimandare il momento del secchiaio anche di giorni. Le lattine della birra e i cartoni della pizza una volta sono rimasti sulla tavola quasi una settimana!

Ma la distanza fisica dal mio paese – dove l’ansia da prestazione mi soffocava – da sola non era ancora sufficiente. Occorreva anche una dilatazione temporale: era necessario che fossi disposta a concedermi tempo al di là della scadenza del 22 marzo. Il mio rapporto con il tempo è sempre stato conflittuale, anche in comunità, non riuscivo ad accettare di lasciarlo andare così come sarebbe andato. Volevo necessariamente controllarlo, misurarlo, essere in grado di calcolare in termini di mesi il tempo che mi sarebbe occorso per guarire. Ma il cambiamento, la vita non rispondono alla logica dell’orologio; piuttosto sono loro stessi, la vita, il cambiamento, in nostro orologio: sono loro a dettare le regole dello scorrere del nostro tempo interiore, il tempo della nostra rinascita.

Lo stesso giorno in cui concordai per un posto in doppia, presi poi il treno per tornare a Verona insieme a una mia cara compagna, Tina che «un giorno farà la ballerina». Per quanto ci vediamo molto poco, la sensibilità che ci accomuna è talmente affine che basta uno sguardo e già ci troviamo sulla stessa lunghezza d’onda. Con Tina è quindi inutile che io tenta di fingere, mi “sgama” sempre. E così accadde anche quella volta. Mi ritrovai con il viso teso e le lacrime agli occhi mentre la ascoltavo dispensarmi il suo prezioso consiglio: «Ele, ma perché importi una scadenza così fissa? È matematico che ti venga ansia. Prova a non pensarci…so che è difficile, soprattutto per te e la tua storia, però devi provarci. Piuttosto pensa all’obiettivo e non al tempo che ti occorrerà per raggiungerlo. Perché alla fine è quello che conta. O no?».
Tina ha ragione, l’ansia nasce proprio da una contraddizione insanabile che vorrebbe conciliare i nostri infinti obiettivi con il tempo limitato che abbiamo a disposizione, perché inconsciamente lo sappiamo tutti che non ci è dato sapere se domani apriremo gli occhi. Costantemente noi viviamo sfidando la morte.
Distanze fisiche, dilatazione dei limiti temporali, spostamenti spaziali dipendenti dai mezzi di trasporto pubblici mi hanno così aiutato a porre dei limiti oggettivi dal mio paese, da ciò che ora rappresenta per me. E grazie a queste lontananze spazio-temporali ho potuto tornare ad essere più serena, ad affrontare la tesi con la giusta predisposizione d’animo senza lasciarmi soffocare dalla frenesia dall’impegno comunale. In questi mesi ho anche imparato a organizzare i tempi, a tenere separati i due aspetti, e la distanza fisica in questo mi ha molto aiutato: quando sono a casa mi dedico al Comune, quando sono a Trento all’università, che è comunque un modo per dire che quando sono a Trento mi dedico più a me, ai miei obiettivi, al mio futuro. Prima non ci riuscivo. Anche imponendomi la mattina in municipio, il pomeriggio in studio, la testa poi correva alle cose lasciate in sospeso e da chiarire nei giorni successivi con il personale, agli eventi in programma e che era necessario definire, alle riunioni della sera, alle risposte più consone da dare.
L’allontanamento mi ha salvato dalla voragine di un’ansia vorace che mi stava piano piano privando di tutte le energie, lasciandomi alla sera con una stanchezza incredibile (nonostante durante la giornata non avessi fatto nulla se non piangere per la mia stessa ansia). Ho così capito che si può essere stanchi anche di una stanchezza d’ansia. Questa è una stanchezza pericolosa, quasi mortale perché paralizza e ti chiude nell’inerzia rabbiosa che ti trascina: un «cane che si morde la coda», paralizzante e logorante allo stesso tempo, pigra e divoratrice, frenetica e inconcludente.

Semplicemente, quindi, grazie! Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a generare in me un’idea spazio-temporale capace di contrapporsi a quella dell’ansia stessa e a generare un’emozione ad essa uguale e contraria: la serenità d’animo.

Eleonora Filippi ©

 

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