SORELLE
Ti osservo mentre riposi accanto a me per l’ultimo pomeriggio. Raggomitolata al mio fianco, la tua guancia destra sprofonda nel cuscino mentre le tue labbra accennano di tanto in tanto minimi movimenti inconsci e improvvisi. Più tardi scoprirò che il termine tecnico è mioclonie. Un colpo di palpebre più forte serra ulteriormente i tuoi occhi chiusi già da un po’.
Quattro notti in un letto condiviso, cinque giorni di complicità unica e tra poche ore di nuovo quella solitudine.
Già questa mattina mentre passeggiavamo in rue Mouffetard, un germe di malinconica tristezza ha iniziato a perforarmi il cuore e l’anteprima di un vuoto incolmabile ha anticipato il sentimento che la tua partenza lascerà tra poche ore.
Fin da ora so che questa sera nella solitudine di un letto troppo grande per una persona sola piangerò la tua lontananza, la tua assenza: piangerò te. Piangerò la parte di me che vive quando sono con te.
Ti rigiri nel sonno, nel silenzio sospeso sospiri: «Oh, Ele!». Nella penombra del lenzuolo rimani a pancia in sù, il volto di profilo. Posso ora seguire con lo sguardo la linea che disegna la tua fronte, il tuo naso, la delicata sporgenza della tua esile bocca, la precisione del tuo mento.
Quando ci siamo viste l’ultima volta era estate ed eravamo in Italia. Sono passati sei mesi senza che ci vedessimo. Abbiamo dovuto accontentarci di video-chiamate che a lungo andare hanno però spento il caldo della nostra relazione tanto che, una quindicina di giorni prima del tuo arrivo, ho dubitato del nostro rapporto.
Da allora non avevo più vissuto così in profondità alcuna relazione, da sei mesi avevo perduto il senso di misura incommensurabile che può avere una complicità binaria, da sei mesi vivevo a 75%.
Sorellina, a te che studi lingue ti sembrerà banale, ma solo il fatto di esprimermi per la maggioranza del tempo in una lingua che non è la mia, mi impedisce di trasmettere fino in fondo ciò che sento. Infatti, quando cerco di spiegare in francese il mio sentire, sono sempre obbligata a passare per un riassunto razionale e logico che raffredda le emozioni e che ha come scopo quello di farsi comprendere piuttosto che quello di rivelarsi autenticamente.
La sveglia del tuo cellulare suona. Ti fa sussultare. «oh, Madonna!» esclami. Sforzi i tuoi occhi astigmatici che diventano due micro fessure, guardi il cellulare e a mezza voce proferisci tra te e te e verso me – come si trattasse di un’affermazione autoreferenziale che cerca ciò nonostante una risposta di approvazione:
« Io dormo ancora un po’. Va bene? Dieci minuti e poi mi faccio un caffè. E tu?».
«Io faccio tutto ciò che farai tu nelle prossime due ore».
Ti appigli con le tue braccia alle mie gambe, e mi dici: «Che carina che sei vista da quaggiù». Non siamo infatti sullo stesso piano: tu sei sdraiata, io sono seduta con il dorso appoggiato allo schienale del letto e le gambe incrociate. Non ti accorgi che piango, il tuo sguardo è già riaddormentato.
All’aeroporto ti accompagno fin dove posso: quando ti inserisci in coda per il controllo sicurezza, il mio sguardo non lascia il tuo corpo. I miei occhi rincorrono i tuoi passi che seguono i nastri tesi che definiscono la serpentina.
Serpentina che fila dopo fila ti avvicina al metal detector, che viaggiatore dopo viaggiatore ti sottrae alla mia vista. Ti ho persa! O forse no, non ancora! Il laser delle mie pupille cattura per un’ultima volta il giallo ocra della tua giacca dietro la borsa in camoscio chiaro di un’elegante signora. Infine, scompari, fagocitata nel flusso.
Mi allontano piangendo. Il presagio emotivo di questa mattina si compie. Piango, sorellina, piango. Ed è strano perché non è la prima volta che vieni a Parigi e trovarmi per qualche giorno e che poi riparti. Eppure piango. Piango la tua morte, piango il mio lutto: quella parte di me che vive quando sono con te e che muore ogni volta che te ne vai.
© Eleonora Filippi